Mura alte quattro metri. Automobili che sfrecciano sulla statale di periferia, poche rallentano, nessuna si ferma. Il manicomio di Vercelli non si trova in città ma vicino alla odierna tangenziale, dove una volta c’erano solo campi ed ora sono rimasti gli orti abusivi, recintati con materiale portato fuori dalla struttura abbandonata. Il riciclo dell’abbandono; l’abbandono del riciclo. Uno spettacolo desolante. Dal piazzale di ingresso, si notano furgoni e automobili dell’ARPA oltre le sbarre: sono gli ultimi sopravvissuti in un parco di 125.000 metri quadrati, completamente abbandonato eccetto che per questo padiglione.

Nasce nel 1937 il manicomio di Vercelli, o per essere più precisi l’Ospedale Psichiatrico Nazionale – sigla O.P.N: venti padiglioni, un parco enorme, un teatro, una chiesa, cucine, sale ricreative, una biblioteca ancora oggi piena di volumi di inizio ‘900. Abbandonati, chiaramente. La struttura rimane attiva fino al 1978 quando, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia, alcuni padiglioni vengono sigillati ed abbandonati mentre altri vengono riadattati ed utilizzati come struttura ospedaliera ordinaria fino al 1991 – anno di inaugurazione del nuovo ospedale vercellese Sant’Andrea. Dopo il 1991, l’oblio.
Qui sono passate centinaia, migliaia di persone dichiarate pazze. Le diagnosi più comuni: epilessia e schizofrenia. Agli schizofrenici veniva somministrata insulina per indurre quotidianamente il coma, dal quale venivano poi risvegliati con destrosio in endovena. Chi non si svegliava veniva picchiato o sottoposto ad elettroshock. I pazienti stabili, invece, svolgevano attività quotidiane di supporto alla struttura; ma sembravano per la maggioranza non avere contezza di loro stessi. Questi i racconti di Teresa Medeghini, classe 1934, impiegata come infermiera all’allora Ospedale Neuro-Psichiatrico di Varese. Non Vercelli dunque; ma la prassi sfortunatamente era la medesima ovunque, date le scarse e spesso errate conoscenze mediche sui disturbi trattati. Spesso, racconta Teresa, i pazienti all’arrivo in manicomio sembravano alle infermiere persone normali – al massimo più taciturne e riservate della media. Al momento delle dimissioni, nessuno era guarito – e quasi tutti erano, per dirla con le parole di questa donna, partiti completamente.

Ad alcuni le scosse venivano somministrate per quindici minuti di seguito. Al termine, diventavano persone perse nel loro mondo, con lo sguardo fisso nel vuoto. L’infermiera ricorda, soprattutto, la paura negli occhi dei malati: una paura, lei afferma, quasi non consapevole; non orientata verso qualcosa o qualcuno di specifico.
Il tempo, lungo questi corridoi infiniti, sembra sospeso: in quasi tutti i luoghi abbandonati è così. Qui l’impressione di immobilità è rafforzata da grate, sbarre, cinghie di contenzione. Tutto sembra sottolineare quanto cara deve essere, sempre e comunque, la libertà.
Essere pazzi non ha avuto il medesimo significato in ogni tempo e luogo. In certi momenti storici i manicomi sono stati strumenti politici di repressione e confino; luoghi dove ostacolare libertà che poco avevano a che fare con il concetto medico di follia. Del resto, è abbastanza facile capire come un luogo che per sua stessa natura isola, contiene, imprigiona e limita sia più che adatto anche per altri scopi quando il momento storico-politico lo richiede.
Prima mistici e poi indemoniati, i matti solo nel ‘600 si vedono rinchiudere in strutture che, peraltro, non servono affatto a curare ma semplicemente ad allontanare dalla società chiunque per essa sia ritenuto pericoloso. Vagabondi, nemici del potere, donne troppo libertine, persone allontanatesi dalla fede… chiunque abbia, per così dire, smarrito la retta via si ritrova a finire i propri giorni in qualche casa di internamento. Luoghi di maltrattamenti e violenza, dove spesso senza criterio alcuno si legifera sulla vita e sulla morte di creature private di ogni libertà.

Le cose iniziano a cambiare con la nascita della psichiatria – ma non così in meglio come ci si potrebbe aspettare. I pionieri della neonata scienza usano punizioni e metodi correttivi disumani; incutere paura rimane fondamentale per dissuadere il malato da perseverare nei propri comportamenti. Il vero segnale di cambiamento si ha più tardi, con l’avvento della psicoanalisi. Siamo a cavallo tra ‘800 e ‘900, la malattia mentale non è più solo organica, e talvolta non lo è affatto: occorre indagare il sintomo e risolverlo, non reprimerlo brutalmente. Arriva anche in Italia questa ventata di modernità, trovando una realtà di case di cura disseminate su tutto il territorio, in gestione a frati o suore di grande animo – quando si è fortunati – ma di nessuna esperienza. Niente registri di accessi ed uscite, niente prassi da rispettare stabilite da una qualche autorità – e niente autorità. Nel 1904 passa la legge Giolitti, che resterà poi in vigore fino alla famosa legge Basaglia del 1978, sancendo che possono essere internati solo i malati ritenuti pericolosi.
Fatta la legge trovato l’inganno, così si dice e non a caso: chi certifica la pericolosità del soggetto? Bastano una semplice segnalazione o un’ordinanza di pubblica sicurezza, corredate di certificato medico – di qualsiasi medico, per dovere di cronaca. Dal ’27, con l’intensificarsi del controllo da parte del regime fascista, si moltiplicano i casi di internamenti pilotati di dissidenti politici. A dirla tutta, si moltiplicano anche i dissidenti che si fanno ricoverare da medici compiacenti, per evitare pene ben più dure della detenzione in manicomio.
I manicomi diventano ospedali psichiatrico-giudiziari. Un interessante connubio. Persino la prima moglie ed il primogenito di Mussolini – dopo una separazione per così dire un po’ troppo rumorosa – cadono nella trappola dell’internamento coatto: moriranno l’una per le torture a San Clemente (Venezia) e l’altro di stenti a Mombello (Milano), non avranno mai diritto ad una tomba ed i loro corpi non saranno mai ritrovati.
E per restare contemporanei al fascismo, non dimentichiamo che il manicomio di Vercelli custodisce un particolare segreto. E’ il ’45, il clima di un’Italia divisa e martoriata lo abbiamo presente tutti. Allo stadio di Novara i prigionieri fascisti sono tanti, i prelevamenti sono all’ordine del giorno così come gli interrogatori e le esecuzioni più o meno sommarie. Il 12 maggio, la 182esima Brigata partigiana Garibaldi “Pietro Camana” giunge allo stadio con un elenco di 170 nomi di prigionieri da prelevare. Ne individuano 75, li caricano sugli automezzi e li portano al manicomio – dove evacuano il personale ospedaliero. Dopo le percosse, undici di loro vengono fucilati nella vicina frazione di Larizzate e seppelliti in una trincea di difesa antiaerea.

Alcuni vengono gettati dalle finestre del manicomio, altri uccisi alla spicciolata dell’orto. Un numero imprecisato viene condotto a Greggio, comune non distante, ed ucciso sul ponte del Canale Cavour nottetempo. Una dozzina di prigionieri sono trasferiti al locale carcere giudiziario; contribuiranno poi con la loro testimonianza alla difficile ricostruzione storica di questo episodio.

A dieci prigionieri circa tocca la sorte peggiore: legati con del fil di ferro, sono fatti stendere a terra sul piazzale antistante il manicomio. Due autocarri o una sola camionetta, a seconda della fonte storica cui prestare fede, passano sopra questi uomini più volte fino a provocarne la morte. I corpi non verranno mai ritrovati.

Il fascismo non è diverso, nell’uso che fa dello strumento manicomio, da qualsiasi altra dittatura. Con il comunismo in Russia assistiamo allo stesso triste spettacolo; addirittura più atroce se consideriamo che alcuni luminari, non paghi delle diagnosi di schizofrenia confezionate ad hoc per i nemici del regime, ipotizzano persino che il dissenso ideologico sia esso stesso sintomo di un grave malfunzionamento psicologico. A dir poco aberrante.

Occorre davvero aspettare la legge 180 del 1978 affinché la situazione cambi drasticamente. Da tutti questa legge è conosciuta con il nome del suo promulgatore, il dott.Basaglia, neurologo e psichiatra triestino: una personalità moderna che riporta al centro i diritti umani. Colui che soffre di malattia psichica non è un detenuto ma un paziente, deve godere delle proprie libertà e non può essere sottoposto se non in rari casi a trattamento sanitario obbligatorio. Via i metodi disumani, via gli abusi, si aprano i manicomi – tutti fuori, chi vuole si faccia curare volontariamente. E chi non vuole? Già, di domande senza risposta questa legge ne genera molte. Ma ciò che importa è che questi luoghi di grande sofferenza chiudano i battenti in quell’anno e spesso per sempre.

Nella zona riadattata ad Ospedale e chiusa definitivamente nel 1991 l’atmosfera cambia, l’odore peggiora. Se nell’ala vecchia poco è rimasto che si possa deteriorare, qui si è nel pieno del disfacimento. I seminterrati e le cantine, poi, amplificano l’odore di marciume che sembra essudare dalle pareti stesse. Ed eccolo qui l’incontro con la malasanità: registri dei parti, cartelle cliniche, lastre varie ed eventuali – tutto completo di dati sensibili. Forse nel 1990 lo erano meno? In tutto il complesso, all’incirca, ci si imbatterà in una decina almeno di archivi completi di documenti estremamente privati; abbandonati e ormai inservibili.
Perché non sono stati se non correttamente conservati almeno correttamente smaltiti? Ci piacerebbe chiederlo all’ASL di competenza. O forse, nella nostra ignoranza, non abbiamo capito che l’appalto per la distruzione è stato in realtà affidato, per risparmiare, ai ratti che passeggiano qui e là – unici ospiti della struttura.
In uno degli ambienti seminterrati si trova un tavolo in acciaio inox per le autopsie. Gli scoli per i liquidi organici non lasciano molto spazio alla fantasia, ancora meno ne lascia il carrello accanto – sempre in acciaio – con tanto di coperchio. Lo spreco enorme di ieri avrà un enorme costo domani, quando per un motivo o per l’altro questa struttura sarà oggetto finalmente di un piano di recupero. E non dimentichiamo che, oltre ai rifiuti normali e a quelli decisamente ingombranti quali attrezzature ed arredamento, si dovranno smaltire prima o poi anche i vari rifiuti speciali e contaminati che sono stati riposti negli appositi contenitori –contenitori poi abbandonati qui a là in questa discarica invisibile. Bende, cerotti, provette contenenti ancora materiale organico. Qui la gente non si indigna solo perché non vede; le mura che una volta servivano a nascondere i matti ora servono a nascondere l’indecenza.
Esplorare questo luogo di Storie e storie obbliga a riflettere sul concetto del diverso. In sua assenza ci si batte per il suo rispetto, in sua presenza diventa improvvisamente tutto più difficile. Per questo si costruiscono muri, ancora oggi, concreti e metaforici: è più semplice rifiutare completamente qualcosa che accoglierlo e doversi trovare ad integrarlo. Le mura dei manicomi venivano in soccorso di un grande bisogno umano, quello di tracciare confini, di stabilire il dentro e il fuori, il noi ed il loro: il bisogno di preservare la propria identità lontana da pericoli di contaminazione, soprattutto quando questa contaminazione è sentita come possibile, vicina, forse persino intrinseca alla nostra natura di umani.

Quanto più il confine è labile nel pensiero, tanto più diventa necessario erigerlo fisicamente – e che sia alto, forte, indistruttibile. Che sia sicuro, per farci sentire al sicuro. Il diverso incute timore, ma quando è un diverso che potrebbe accadere anche noi si insinua nelle nostre menti un vero e proprio terrore – ed impellente diventa l’esigenza di proteggersi, di celare persino alla vista un frutto il cui seme potrebbe germogliare un giorno o l’altro anche nel nostro giardino. Il diverso, quando è abissalmente estraneo alla nostra natura, è più oggetto di curiosità che di paura: è semplicemente altro-da-sé, ci permette di essere spettatori distaccati dell’alterità, impavidi studiosi. Il problema nasce quando il diverso è vicino, affonda le sue radici nei dintorni della nostra quotidianità, nella nostra stessa natura, nel nostro qui ed ora. Per di più, il diverso è metaforicamente un luogo che non abbiamo frequentato, in media, molto spesso: non ci siamo abituati, non lo conosciamo bene, ne ignoriamo la geografia precisa – e per questo lo temiamo ancora di più, come temiamo tutto ciò che non vediamo nitidamente.