Abbandono, una filosofia personale.

I luoghi dell’abbandono sono terre di confine, spazi dove la trama della società si dirada, in un continuo e progressivo lacerarsi che lascia affiorare sempre più potentemente la natura. Sono luoghi dove la stoffa dell’urbanizzazione, antica o moderna che sia stata, è ormai lisa dall’incuria che l’uomo le ha riservato. Luoghi fatiscenti. Il termine stesso aiuta ad annusarli; sembra quasi di catturarne anche qui ed ora l’odore pungente di muffa e umidità. Dal latino: fatiscens, participio presente del verbo fatisci; fendersi. Fendersi proprio come l’opera dell’uomo si apre in crepe sotto il peso del tempo che incalza. Il fatiscente è la cifra della rovina – che col participio presente diventa una rovina attuale, in itinere. Come se ciò che è stato si stesse sgretolando anche adesso, sotto i nostri occhi, i nostri passi leggeri di visitatori inattesi. Fatiscenti evoca immediatamente l’immagine di vecchi edifici cadenti, lamiere arrugginite, finestre come occhi spalancati nel buio. A qualcuno tornerà alla memoria una fabbrica dismessa in periferia, ad altri quello scalo ferroviario abbandonato dopo l’elettrificazione, o un manicomio smantellato dopo la promulgazione della legge Basaglia. Ad altri ancora tornerà alla memoria una vecchia casa che esploravano da bambini; quando il senso dell’avventura che si annida in ognuno di noi non si era ancora assopito.

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Sono generalmente luoghi che incutono timore, suscitano disagio in chi, di passaggio, se li ritrova dinanzi. Nella visuale paesaggistica quotidiana, occidentale, urbanizzata e sempre – ora più ora meno – ordinata si apre all’improvviso uno squarcio: il decadente. Qualcuno, specialmente se della mia stessa generazione, a queste mie parole abbinerà sicuramente l’immagine della realtà virtuale del film Matrix. Una realtà che aspira a dipingersi perfetta, preordinata, rassicurante; ma nella quale si intravedono nemmeno troppo celati quelli che potremmo chiamare i buchi del sistema.

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Così sono i luoghi del vento: rivelazioni improvvise di ciò che sta dietro, che sta sotto, che sta oltre. All’occhio che lentamente si disabitua alla luce sfavillante del mondo-che-è-in-funzione, si svela poco a poco ciò che sta, dimenticato, dietro le quinte. Macchine che dormono sonni eterni sotto lamiere contorte, libri che rimangono muti, con la sola polvere come compagna; soglie che si aprono su stanze buie, dove gli oggetti sembrano spesso aspettare che ritorni il padrone, in perenne attesa, come un cane dinanzi alla finestra.

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La decadenza è terreno fertile per l’ambivalenza emotiva: ne siamo attratti e respinti, contemporaneamente, oscilliamo come pendoli tra l’inquietudine e il fascino della scoperta, sentimenti direttamente collegati tra loro da una parola chiave: rischio –  termine che troppo spesso abbiniamo, erroneamente, ai possibili effetti indesiderati di un’azione mentre in realtà è una vox media, non connotata né positivamente né negativamente. Il rischio è l’effetto dell’incertezza dei risultati, è connesso con la nostra (in)capacità di predizione ed intervento dinanzi ad eventi dall’esito non noto. Rischiare ci pone in una situazione psicologica in cui si affiancano timore, impazienza, desiderio. Un connubio molto potente ed adrenalinico. Anche la consapevolezza di una possibile ricompensa è un richiamo piuttosto forte: cosa ci sarà dietro quella porta? Un tesoro? Non si è mai troppo grandi per tornare bambini, paure comprese: e se invece ci fosse un mostro? O un fantasma? Tutte sciocchezze all’acqua di rose se lette sulla carta, già più vivide se vissute dentro a realtà virtuali, decisamente vive quando ci si muove nel mondo.

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La sete di avventura non è un lusso ma una necessità dello spirito umano, come ci ricorda Alex Bellini, valtellinese, reduce da poco dall’esplorazione del ghiacciaio islandese Vatnajokull. Che le avventure siano grandi o piccole, è lui il primo a ricordarcelo, non ha poi così importanza – ciò che conta è appagare un bisogno proprio dell’uomo, riconnettersi con il momento presente, cercare la vita, ricordandosi che ha sempre un prezzo. Non c’è una differenza così abissale tra l’aprire gli occhi su un nuovo mondo e l’aprire una porta chiusa da mezzo secolo. Entrambi i luoghi possono essere ostili, possono nascondere insidie, pericoli, forme di vita non felici della nostra presenza. Entrambi i luoghi ci pongono davanti all’interrogativo: cosa ci sarà al di là…? E alla risposta: voglio scoprirlo io, voglio essere io a svelare il segreto, a sollevare il velo di Maya sulla verità. Ecco che l’esploratore urbano cerca di diventare la versione 2.0 dell’archeologo, ma senza gloria alcuna e soprattutto senza pretese e competenze.

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Questo solitario esploratore in nero è un personaggio schivo, che si muove dentro a spazi dimenticati imitandone l’ombra ed il silenzio. La sua fedele compagna d’avventura è una macchina fotografica, qualche volta un cane se l’ambiente lo permette senza pericolo. Meno spesso, un altro essere umano perversamente attratto dalla stessa insana passione. L’esplorazione urbana è un’attività dai contorni indefiniti: bisogna essere un po’ scalatori e un po’ acrobati, discreti fotografi e possibilmente appassionati di storia. Sicuramente, bisogna essere rispettosi.

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Perché l’ambiente urbanizzato? Perché ancora più della natura selvaggia ci ricorda che l’uomo è solo un ospite, ma che purtroppo non vive come tale. Edifica, accumula, non recupera ed abbandona. La natura lentamente si riprende questi rifiuti urbani, questi spazi che le sono stati rubati, ingoiando interi edifici nella gola profonda dei suoi rovi. Talvolta gli edifici abbandonati sono stati in passato di un certo interesse storico, e conservano testimonianze del loro antico splendore. Ci si può imbattere in manufatti artistici che fanno esclamare all’Indiana Jones che c’è in noi: dovrebbe stare in un museo! E così l’esploratore in nero rivela la propria sensibilità, il lato etico di un’attività che non è solo un hobby fine a se stesso ma aspira a risvegliare le coscienze. Quelle delle associazioni culturali, delle amministrazioni comunali, degli organismi di governo e del privato cittadino. È la preghiera muta delle dimore del vento: cara Italia, siamo qui, vecchie pietre che ancora portano i segni degli ormai passati fasti; abbiamo ancora molto da dare, da raccontare, da tramandare.

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Quanti di questi luoghi, se fossero restaurati con sapienza e criterio, potrebbero essere visitati con interesse da ospiti paganti? Quanti potrebbero invece essere ristrutturati, ripristinati con altra destinazione d’uso, combattendo così a latere la barbara cementificazione che ci assale? Non si tratta di fantasie poi così irrealistiche, se consideriamo che uno dei progetti più amati del FAI,I luoghi del cuore, non nasce poi così lontano. E’ dal 2003 che il FAI, in collaborazione con Intesa San Paolo, lascia la possibilità ai cittadini di segnalare luoghi nascosti da recuperare. Si tratta di piccoli o grandi tesori, sparsi in questa nostra Italia che quasi non sa più che farsene di tutta la bellezza che la ricopre – e che, sicuramente, fa molta fatica ad amministrare. I due enti a fronte delle molte segnalazioni ricevute in questi anni si sono presi cura dei luoghi più votati sul web, portandoli a nuova vita e talvolta all’apertura al pubblico.

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Chiaramente non tutti i luoghi abbandonati offrono potenzialità tali da poter essere considerati di interesse di associazioni così importanti, ma fortunatamente l’architettura di recupero pensa spesso a come riciclare con altre destinazioni d’uso questi luoghi che hanno tanto da dire. È il caso, per fare qualche esempio a livello locale, della miniera Sant’Aloisio in Valtrompia trasformata in un bel parco avventura; stesso destino toccato alle vecchie miniere dei Piani Resinelli (vicino a Lecco) che ora possono essere visitate con gioia da tanti bambini. Sfortunatamente questi interventi richiedono quasi sempre l’interesse e i fondi dei privati; va da sé che non sempre si riesca a preservare la fruibilità del luogo in questione da parte di un pubblico vasto. È il caso di Villa Feltrinelli a Gargnano, storica e meravigliosa dimora neogotica dove soggiornò Mussolini dopo l’8 ottobre 1943: anni ed anni di declino, alla mercé di chiunque volesse entrarvi per vandalizzare, sottrarre oggetti, distruggere arredi. Poi, nel 1997, la rinascita grazie al noto hotelier Bob Burns: oggi servono minimo 500 euro per provare l’ebbrezza di soggiornare in quello che è diventato il più prestigioso hotel della zona, sempre – sia ben chiaro – che si sia disposti ad accontentarsi della camera più economica. Accade così che pochi privilegiati possano ammirare quanto resta dell’antica limonaia dove passeggiava il Duce, o immergersi nell’atmosfera della nobiltà ricreata dallo studio di San Francisco cui fu affidato il sapiente restauro. Polemiche da avanzare? Sì, tante, ma tutte si arrestano dinanzi alla fatidica domanda: meglio privata e godibile da pochi, o completamente in rovina e aperta a tutti?

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Davanti a questo dilemma non resta, come farebbe il buon Battiato, che alzare bandiera bianca. Il problema non è che questi luoghi siano sconosciuti, dimenticati, non censiti; il problema davvero enorme si racchiude in una sola parola: soldi. Soldi che il Governo non ritiene di dover destinare all’ambito della tutela del patrimonio, soldi che conviene far girare con nuovi cantieri e nuovi appalti – cementificare purtroppo è un affare, pulito e non; ma sempre affare rimane. È così che assistiamo allo spettacolo desolante di cantieri avviati e mai finiti, o infrastrutture nuove di zecca mai inaugurate ed ormai già in rovina. Ecomostri che, peggio ancora dei loro quasi sempre più nobili predecessori, di vita e di storia non ne hanno mai avuta nemmeno una. È il paesaggio urbano del non-finito, uno scenario di costruzioni mai portate a termine che, soprattutto nelle zone d’Italia più soggette all’abusivismo, coinvolge anche le abitazioni private.

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Il nostro uomo in nero esplora anche questi paesaggi sublunari, ma li ama meno delle costruzioni con una storia. Qui ci va per spirito di denuncia, per indignazione; là, ci va alla ricerca di bellezza.

 

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