Le due aquile con le ruote da mulino – simbolo della famiglia Molinari – sono rimaste ancora in piedi, sembrano far da guardia a quelli che ormai si possono definire i resti di una grande dimora. Anno di costruzione 1760, ad opera dell’architetto Giuseppe Bianchi; anno di distruzione 2017, ad opera di ignobili ignoti.
Una villa aristocratica di prestigio, edificata da uno dei migliori urbanisti neoclassici per conto della famiglia Molinari in quello che è attualmente il centro storico di Limbiate (nelle vicinanze di Milano). Negli anni, la proprietà passa di mano in mano alle famiglie Medolago e Rasini e, all’incirca alla metà del secolo scorso, come spesso accade a dimore come queste – vuoi per incuria, vuoi per eccessive spese di manutenzione, vuoi per disinteresse – viene semplicemente abbandonata a se stessa.
Nel 2008 la società De Angeli Frua S.p.a., della quale partecipano lo psicanalista Verdiglione e la moglie Cristina, compra la proprietà con l’intenzione di ricavarne un albergo di lusso – come già fatto con Villa Borromeo di Senago.

L’amministrazione comunale di Limbiate firma la convenzione, il piano di rilancio sembra conquistare tutti: un grande cartellone sul muro di cinta mostra come diverrà la dimora da sogno, si promettono molti posti di lavoro e una riqualificazione che tenga conto del prestigio storico della villa.
Nel 2014, il flop totale: il piano viene ritirato, si scoprono un giro di fatture false che ammonta a tre miliardi di euro e trecento milioni di evasione fiscale. La società è dichiarata fallita, i creditori rimangono senza nulla a cui appigliarsi – lo stesso Comune di Limbiate si ritrova con circa mezzo milione di imposte a suo credito.
Villa Molinari viene confiscata nell’ambito di questa enorme operazione della Guardia di Finanza e da allora giace semplicemente in attesa – di progetti, decisioni, cure e restauri.
Il pomeriggio del 6 gennaio 2017 qualcuno avvista una colonna di fumo salire dal tetto della villa. Si chiamano i pompieri, ma le difficoltà per l’intervento sono molte: dall’ingresso principale l’autopompa non passa, il cancello sul retro non si apre. Alla fine si rimedia una ruspa di fortuna con la quale sfondarlo e finalmente poter procedere a spegnere l’incendio – che, inutile dirlo, a questo punto ha divorato quasi tutto. Il tetto e i piani alti sono perduti, le fiamme sembrano essere divampate proprio da lì. Il sospetto è che si tratti di un incendio doloso. Purtroppo la posizione della villa, centrale ma circondata da un terreno divenuto ormai un groviglio di rovi e protetta da alte mura, non ha facilitato una tempestiva presa di coscienza di ciò che stava accadendo.
Quando l’incendio viene domato, ci si rende conto che anche gli affreschi che adornavano le sale più prestigiose sono ormai perduti. Se già prima nessuno sembra essersi occupato con competenza di questo luogo, potevamo forse sperare che avvenisse quando ormai è ridotto a cenere? Non crediamo sia necessaria una risposta. Non in un’Italia che, per troppa ricchezza d’opere, diventa povera di spirito e di cure. A tutt’oggi Villa Molinari si presenta come ritratta in questi scatti, che immortalano un presente scomodo per le amministrazioni e sicuramente molto precario, perchè ciò che resta sta crollando.
Ovviamente, il sito non è accessibile al pubblico. Sempre “ovviamente”, un cartello di divieto d’accesso ed una recinzione semi distrutta non bastano a tener lontani vandali, fotografi e curiosi.
Con due passi solamente, come sempre accade in questi luoghi, si cambia epoca. Si entra in uno star gate della storia: una porta magica che si lascia alle spalle la civiltà, il rumore, il nuovo millennio. Il grande parco abbandonato accoglie il visitatore solitario col suo coro di cicale; le mura assolate sembrano rimanere in piedi per uno sconosciuto stato di grazia. E mantengono la loro dignitosa imponenza. Si respira un’atmosfera di attesa: precarietà e sospensione sono le parole che aleggiano nell’aria. Ed incuria è la parola che sovviene drammaticamente al cuore.