Luoghi o non luoghi? Questo è il problema.

La mia è una critica all’esistenza del non luogo. Lo affermo subito cosicché chi sia infastidito dal mio pestare i piedi ai “grandi” possa tranquillamente saltare la lettura di questo mio articolo del blog. Ego ve absolvo. Non critico la possibilità dell’esistenza del concetto, perché possiamo ideare una serie di concetti senza che a questi corrisponda necessariamente un’ontologia nel mondo ma – perdonatemi – è anche vero che la creazione di concetti dovrebbe essere funzionale a qualcosa. Altrimenti stiamo filosofeggiando, il che va benissimo, ma mi interessa filosofeggiare descrivendo la realtà più che semplicemente il processo di pura ideazione – per carità, può dare un suo piacere a livello di soddisfazione mentale ma è scarsamente fruibile nella vita di tutti i giorni.

Villaggi turistici standardizzati, abbozzati, mai finiti, e poi abbandonati.

Il concetto di non luogo è secondo me contraddittorio al suo stesso interno, perché luogo e spazio si sovrappongono: non possono essere distinti. E dopo dirò perché affermo ciò. Partendo da questa – mia – premessa, quindi, dire che un non luogo è uno spazio già è una definizione che perde di senso; perché lo spazio è inevitabilmente già un luogo ed è inevitabilmente già connotato da tutta una serie di caratteristiche che lo rendono impensabile come non luogo.

Storie di transiti. Cabina di scambio ferroviario in disuso.

Ma prima di tutto dobbiamo ricordare le caratteristiche del non luogo così come sono state teorizzate da Marc Augé. Sostanzialmente, per riprendere le sue stesse parole, quando parliamo di non luogo dovremmo concentrare la nostra attenzione da una parte sullo spazio stesso – che solitamente è uno spazio dedicato al trasporto, al transito, al commercio, al tempo libero; uno spazio non identitario, non storico, e non relazionale. Dall’altro lato dovremmo – l’abbiamo un attimo anticipato – concentrarci sul rapporto che l’individuo crea e intrattiene con questo spazio: un rapporto che sarebbe appunto privo di qualsiasi senso di relazione, di qualsiasi senso di appartenenza – in senso antropologico e culturale. Cito: i non luoghi sono incentrati solamente sul presente e sono rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata dalla precarietà (non soltanto lavorativa), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio, da un individualismo solitario. Le persone transitano dai non luoghi ma nessuno vi abita.

Nelle automobili saremmo solo passeggeri?

I non luoghi in questo senso creerebbero contemporaneamente solitudine e similitudine perché una delle altre loro caratteristiche è quella di essere standardizzati, generalmente uguali in diversi punti del globo, così come lo sono gli aeroporti o le stazioni delle metropolitane o le stazioni di servizio ecc. Spazi con una serie di caratteristiche fisiche e concrete standardizzate – come i lumen per l’illuminazione o la lunghezza del passo delle scale mobili; caratteristiche già predisposte e studiate da norme generali che valgono, diciamo, qui come altrove.

Consonno. Non luogo, o luogo nuovo?

Io, se proprio, li chiamerei nuoviluoghi. Non luoghi mi suona come la risposta di un filosofo ad un’accelerazione del tempo a lui contemporanea; e pertanto forse non del tutto trasparente. Se ci si sente tallonati dalla storia quasi come se la storia accelerasse e noi non riuscissimo a tenere il passo – e Augé ricorda benissimo questo sentire nel suo termine surmodernità – diventa difficile osservare la realtà che ci circonda senza un paio di occhiali colorati, per così dire, dalle emozioni. A differenza del concetto di non luogo, il concetto di surmodernità io lo condivido pienamente: l’eccedenza di avvenimenti, quel surplus che il mondo odierno offre sia per il fatto che effettivamente la storia è cambiata ma soprattutto, oserei dire, perché è cambiato il sistema di informazione. Forse metterei più l’accento sul fatto che non sono tanto gli avvenimenti ad essersi moltiplicati – piuttosto si è moltiplicata la nostra esposizione agli avvenimenti, la nostra sovraesposizione alle informazioni.

E che dire delle navi cargo?

Detto questo l’oggi ha visto nascere e svilupparsi degli spazi – per ora li chiamo così, come li ha chiamati Augé – che prima fondamentalmente non esistevano o esistevano in forma diversa e secondo lui più caratterizzante. Eppure lo spazio che cos’è? E’ la tridimensionalità, quantomeno per come noi lo conosciamo. Bene; se rispondiamo così io ancora ancora all’esistenza dei non luoghi posso credere. Ma in realtà lo spazio non è solo la tridimensionalità, perché esiste la quarta dimensione e la quarta dimensione è il tempo. Secondo me è questa variabile che cambia tutto, è questa variabile che sostanzialmente smonta il concetto di non luogo: perché se è uno spazio è definito non solo dalla tridimensionalità ma anche dalla variabile tempo allora noi dobbiamo considerare un discorso molto, molto più ampio.

Nella costruzione dei sanatori molte misure concrete edilizie erano standardizzate. Magari non i lumen… eppure, non considereremmo mai i sanatori un non luogo. Ma i pazienti, non vi transitavano…?

Oggi il centro commerciale – visto come la nemesi di quelli che sono i luoghi – ci può apparire come uno spazio senza connessioni identitarie, storiche e relazionali. Tra vent’anni cosa succederà? Se è vero che il mondo accelera e non sta fermando la sua accelerazione, è molto probabile che tra vent’anni il centro commerciale sia effettivamente un luogo/spazio in declino non più utilizzato o utilizzato sempre meno. Pensandoci bene già ora molti centri commerciali di prima costruzione stanno lentamente scivolando, dai fasti scintillanti, verso il degrado – saracinesche chiuse, corridoi frequentati dagli abitanti delle periferie, dagli stranieri, da coloro che non hanno un posto dove andare e magari passano del tempo lì per motivi molto pratici – c’è fresco in estate, ci sono i servizi, i bagni, lo spazio è fruibile da gruppi, se ne può fare un luogo di ritrovo.

La dogana di Lignago. Luogo di transito per eccellenza?

E non ci siamo accorti che già così ne abbiamo fatto un luogo? Se interviene la variabile tempo non esiste non luogo, non può esistere perché inevitabilmente ha o avrà una storia e la sua storia non è e non può essere slegata da coloro che il luogo lo vivono. Non è possibile pensare che ci sia solo un transito: il libro di Augé si apre con la descrizione del fantomatico viaggio del signor Dupont che prende il suo bel volo e fa una serie di esperienze di transito appunto, dal posteggio all’aeroporto, dal terminal alla zona dei negozi duty free, per finire con l’aeroplano.

Ri-abitazione? Ma si può ri-abitare un non luogo?

Esasperando le cose io questa storia la potrei raccontare in modo completamente diverso; anzi, la racconto in modo completamente diverso perché così forse è più semplice seguire il filo del mio ragionamento. Il signor Dupont se ne sta sulla sua auto e si stava dirigendo al posteggio del terminal. Siccome è un habitué e non è la prima volta che viaggia per lavoro, conosce ormai entrambi i ragazzi che al posteggio del terminal si occupano poi di spostare le auto. Sarà la quarta o quinta volta che lascia lì la sua auto ormai, ha preso fiducia nei confronti di questi due ragazzi, che sembrerebbero sulla trentina, forse Pakistani, chissà. Il signor Dupont non solo lascia loro le chiavi dell’auto con molto piacere, ma quando arriva ci scambia anche due parole perché sa che uno è sposato e ha una figlia ma purtroppo riesce a vedere la famiglia solamente due volte l’anno – per via del fatto che figlia e moglie sono rimaste nel loro paese. Si tratta di un semplice: ciao come va, sta bene tua moglie? – Sì grazie.

La serialità e la standardizzazione sono arrivate già da molto. Ci facevano egualmente paura?

Perfetto: già in questa interazione lo spazio è diventato luogo, non è più anonimo. La storia del signor Dupont ha comunque altro da insegnarci, perché il nostro protagonista quando arriva all’aeroporto, lascia la sua valigia e si sente – come dice Augé – libero dalla sua identità potrebbe in realtà sentirsi anche in un altro modo: potrebbe essere dispiaciuto perché l’aeroporto gli ricorda i saluti, gli abbracci, gli addii. Nell’aeroporto vede spessissimo nell’area delle partenze le coppie che si danno l’ultimo bacio prima di salutarsi: magari vivono uno a un capo del mondo e uno all’altro, magari semplicemente uno dei due deve partire per una breve vacanza, per un viaggio di lavoro. Fatto sta che l’aeroporto con le sue aree Kiss and Go diventa un grandissimo fulcro di sentimenti: ci sono lacrime, ci sono sorrisi, ci sono abbracci, ci sono relazioni che si manifestano più del solito addirittura; più che in altri luoghi – quantomeno in pubblico – e si manifestano in relazione al luogo, non è che lo spazio aeroporto sia solo un contenitore. E’ proprio lo spazio aeroporto che, data la propria funzione, crea e suscita questo tipo di reazioni nell’uomo.

E cosa diremmo del famoso Portale immortalato da Ghirri? Che porta dal nulla, nel nulla?

Inoltre il signor Dupont, che come abbiamo detto parte da quell’aeroporto abbastanza spesso anche se non utilizza sempre lo stesso posteggio perché non parte sempre dallo stesso terminal, ormai sa che all’interno della zona duty-free c’è un negozio che vende – oltre alle solite cartoline e ai soliti profumi – anche libri. E ogni tanto, quando deve aspettare parecchio prima dell’imbarco, ci passa perché sa che ci lavora una ragazza che a 25 anni sta ancora studiando all’università; e mentre studia lavora lì part-time. Sì perché Giulia – così si chiama – parla benissimo l’inglese, e questo chiaramente in un aeroporto è fondamentale. Il signor Dupont di anni ne ha circa sessanta quindi quella potrebbe essere sua figlia; lui ne è affascinato – perché è una ragazza intraprendente, e la prima volta che l’ha conosciuta l’ha vista che stava consigliando ad un viaggiatore un libro con tantissima passione. Così tanta passione che per un attimo lui, in giacca e cravatta e solitamente molto schivo, si è avvicinato ai due ed ha confermato al possibile acquirente che Il sentiero dei nidi di ragno andava proprio letto. Giulia ha sorriso, e il signor Dupont per un attimo si è dimenticato dell’età anagrafica – e anche del viaggio di lavoro, e anche del meeting super importante, e di un altro po’ di cosette.

Luoghi mobili. Abitati, abbandonati, ri-abitati. Derive urbane.

Ma lasciamo gli intimi pensieri del signor Dupont al suo spazio privato e andiamo a ritrovarlo, finalmente, sull’aereo. Eccolo seduto nel suo posto di business class: ma anziché dire ok, ho davanti qualche ora solo per me succede che la sua vicina di posto – incuriosita forse dalla sua eleganza, forse dal suo bell’aspetto distinto, magari anche dalla sua gestualità – intraprende un approccio. Dove va se non sono indiscreta? Che lavoro fa, quali sono i suoi interessi? Si informa discretamente anche su quella che è la sua condizione affettiva e, signore e signori: in effetti il signor Dupont non è sposato; perché con il lavoro che fa e col fatto che viaggia molto conduce una vita itinerante poco conciliabile con una situazione relazionale fissa.

Reti di scambio. Connessioni?

Guarda caso anche Lucy, la sua vicina di posto, è una donna – sposata – ma molto avvenente; tra l’altro anche lei donna d’affari, e guarda caso la destinazione del volo ovviamente è la medesima. Pertanto, visto che si stanno reciprocamente simpatici, si dicono che si potrebbe anche bere un drink insieme una volta atterrati. Prima del briefing, del meeting, del brunch e così via. E l’aereo ora come lo chiamiamo? Uno spazio che non favorisce le relazioni? I passeggeri non sono mai solo passeggeri, i passeggeri sono uomini e donne che si incontrano. Sì, perchè l’essere umano si incontra ovunque – ovunque uno spazio, che quindi è già un luogo, faccia da sfondo e permetta di esistere.

E la cabina del telefono? Standardizzata, transitabile, ma abitata da mille conversazioni e milioni di emozioni.

E qui non stiamo neanche considerando la variabile tempo; io non sto dicendo che l’aereo assumerà la connotazione di luogo in futuro guardando indietro il passato: sto parlando proprio del qui e dell’ora, dell’adesso. E’ solo nell’uomo secondo me l’apertura o la chiusura rispetto all’alterità: è solo dentro di noi, lo spazio non c’entra niente. Lo spazio è sempre la cornice che ci permette di esistere e di muoverci perché noi non ci muoviamo in una nuvola eterea, ma in un presente storico – e se questo presente storico sia il paese agricolo di 40 abitanti sopravvissuto nelle campagne pugliesi o sia l’aeroporto di Malpensa con la sua sala d’attesa… non cambia niente, non cambia niente perché non cambiamo noi – oppure se noi cambiamo cambiamo in entrambi luoghi, e quindi non si capisce bene dove voglia andare a finire questa faccenda del non luogo. Secondo me ci vuole dire, semplicemente, che il mondo starebbe andando alla deriva e questo pensiero un po’ pessimista è lo stesso che condividono anche tanti altri filosofi e antropologi quando riflettono sulla perdita del concetto di comunità; quando riflettono sulla globalizzazione, sulla standardizzazione.

Strade. Luoghi di transito? Così si reinventano.

Ma diciamo la verità: che ci piaccia o non ci piaccia è quello che sta succedendo, e quello che sta succedendo è fatto da uomini – magari non siamo noi a farlo direttamente, ma sempre fatto da uomini è e noi, chi siamo noi per storcere il naso e chiamarla deriva? E’ la nostra storia e nella storia ci siamo dentro comunque anche noi, non è che possiamo toglierci, elevarci, e semplicemente metterci a giudicarla – come fa la filosofia, è vero, che arriva sempre dopo come diceva qualcuno.

Surmodernità: check point ricostruito a Berlino, Mc Donald’s sullo sfondo.

Questi spazi, questi presunti spazi assolutamente inutili ai fini nobili che possono essere la costruzione di un’identità o la costruzione di una relazione e della storia, dove stanno? La storia la costruiscono proprio loro. L’abbiamo detto che se facciamo intervenire la variabile tempo – e senza quella non c’è la storia e quindi non possiamo prescinderne – il non luogo si sgretola, viene anagrammato, e dietro – spunta il luogo. Il luogo nuovo. La funzione relazionale l’abbiamo vista riscrivendo fantasiosamente la storia del signor Dupont. Manca ora quella identitaria: anche qui non ha alcun senso pensare che non abbia una funzione identitaria il presunto non luogo, torniamo a parlare del centro commerciale. C’è chi va in chiesa la domenica e si sente parte di un gruppo di fede. Bene, i ragazzi quindicenni che si trovano ogni sabato alle 14:00 al centro commerciale si sentono membri di una compagnia. Loro sono i millennials: il centro commerciale per loro è uguale all’oratorio. E dunque non è forse, il non luogo, solo figlio del suo tempo?

Prima della caduta del muro, i check point erano non luoghi? Forse per i contemporanei sì. Gli antenati dei drop-off degli aeroporti.

Io lo definirei un abbaglio. Un abbaglio comprensibilissimo, perché se si sente che il mondo accelera se si sente che la storia ci tallona e se si ha paura della surmodernità – di essere sovraesposti, di essere persi in questa sovraesposizione, di annegarci dentro – allora forse non si riesce a guardarla nel modo corretto. O forse, semplicemente, la verità è che abbiamo un’altra età e io nella surmodernità sono nata; non l’ho vista crescere. Io vedo crescere altre cose, nuove realtà che verranno – e magari a comprendere quelle farò la stessa fatica che ha fatto Augé a comprendere le contemporanee sue. Ma io che arrivo dopo rispetto a lui vedo un semplice errore di giudizio: se qualcuno inventa un luogo a partire da un non luogo, il non luogo esisteva o era solo un’illusione?

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