SPOILER: il seguente breve intervento da me scritto verrà pubblicato sul volume “Da borghi abbandonati a borghi ritrovati – Secondo tempo” curato da Luca Bertinotti e dalla Associazione 9cento, che vi invito caldamente a conoscere e sostenere qui: https://associazione9cento.wordpress.com/

Il luogo abbandonato è una cassa di risonanza: non ci rimanda nulla se non il suono più nascosto della nostra stessa anima. Credo fermamente che ci si metta in contatto, in ogni luogo abbandonato, con il mistero: è qualcosa di tanto dimenticato nella nostra vita, organizzata e pianificata, che quasi non ci rendiamo conto di quanta sete possiamo averne. La frequentazione dell’abbandono ci permette di re-inventarci, ri-definirci in modo alternativo all’usuale; durante l’esplorazione parallelamente esploriamo noi stessi letti in una chiave narrativa diversa. Viviamo tutti un tempo che ci offre un concentrato di strategie e piani per affrontare al meglio l’esistenza occidentale, premio per il nostro essere nati nella fortunata metà del mondo – dove le condizioni di sussistenza per la vita sono ormai garantite. Verrebbe da dire che dovremmo di conseguenza essere tutti ben felici e contenti, eppure assistiamo all’aumento costante di ansia e depressione – i mali moderni, per così dire; che rivelano il grandissimo bisogno di trovare un senso.
Sembra che si sia persa un poco quella capacità di fronteggiare gli eventi negativi della vita, che tanto paiono contrastare con la nostra tendenza a tenere sotto controllo tutto. Il lutto, la perdita, la malattia, la sofferenza – che posto hanno nel nostro campo di visione, come affrontarle con il nostro bagaglio di conoscenze e risorse razionali e scientifiche? Non è forse anche per questo che l’orizzonte individuale della crisi¹ si allarga? Manca un tassello, sembra proprio che l’uomo moderno abbia perso qualcosa per strada. Non è un caso che il nostro sia il tempo del ritorno di certe forme di religiosità, diciamo così, fai-da-te: soluzioni preconfezionate in corsi, seminari, webinar; ricette veloci per la felicità, da cucinarsi ritagliandosi dieci minuti al giorno e praticando una spiritualità in pillole.

Siamo nell’epoca in cui per ogni problema ci deve essere la soluzione, che sia preferibilmente somministrabile in modo semplice e veloce, magari attraverso un video di YouTube che spieghi come fare per. L’ipotesi che per certi problemi la soluzione sia complessa, o che addirittura rischi di non esserci, è tanto spaventosa che nemmeno vogliamo prenderla in considerazione. Voglio dire, andiamo sulla Luna e non abbiamo tre regolette essere felici? Per carità, sarebbe increscioso, inconfessabile. Davanti alla sofferenza ed alla mancanza di senso ci curiamo, come se si trattasse di avere un raffreddore: anziché prendere l’antistaminico prendiamo l’antidepressivo, alzi la mano chi non l’ha avuto almeno una volta nell’armadietto – insieme a suo fratello l’ansiolitico. Il sospetto che certe sofferenze siano condizioni esistenziali non vogliamo proprio farcelo venire, sarebbe come riconoscere che nella nostra condizione umana sia insito qualcosa di orribilmente al di fuori del nostro controllo. Eppure, la domanda sul senso rimane – e risuona forte, potente, tra le volte delle chiese vuote e tra le pareti delle palestre dove i corsi di mindfulness sono al completo. Ripetiamolo dunque insieme: abbiamo dimenticato qualcosa. Vorrei avanzare l’ipotesi che questo qualcosa si possa recuperare, almeno parzialmente, proprio attraverso l’amore e la frequentazione dell’abbandono.

Credo che possiamo concordare tutti sul fatto che ci sia stato un nostro progressivo disabituarci alla frequentazione del magico². Voglio riprendere il pensiero dell’antropologo De Martino, il magico è una risposta antropologicamente utile nei momenti di crisi individuale, per continuare a percepir-si ed a percepire l’altro da sé, il mondo, come luogo entro il quale sapersi collocare. E saper trovare un proprio posto nel mondo è ciò che ci dona quel senso di cui parlavamo prima, ciò che ci difende dalla labilità dell’esistenza. De Martino certo parlava di altri anni ed altri contesti culturali, contesti di povertà e di mancanza di istruzione, dove cercare una risposta nel magico era l’unica alternativa possibile per una umanità che non possedeva gli strumenti culturali adatti a trovarne altri. Contesti coincidenti con quelli che ci troviamo in parte ad indagare qui, piccoli borghi dove un tempo si conduceva una vita spesso frugale, legata ai ritmi della terra, assolutamente non incline al piacere ed al divertimento, dove la povertà dei mezzi materiali viaggiava quasi sempre di pari passo con la scarsità di strumenti di comprensione. La tesi che voglio avanzare è che anche quando vi siano a disposizione cultura, istruzione e strumenti – materiali e non – per trovare tutte le risposte possibili in altri ambiti il magico sia ancora, persino ancora di più, necessario. Non tutte le risposte possono provenire dalla razionalità: la rivoluzione illuminista ha, a tratti, mutilato altre esigenze antropologiche che – stanche di essere soffocate – ci si ripresentano chiedendo un salato conto.

Non mi spiegherei affatto, altrimenti, la profonda mancanza di senso che ci affligge proprio nonostante si abbia praticamente tutto. Credo che sia necessario al nostro benessere spirituale e psicologico che rimangano l’inconoscibile e l’imperscrutabile – categorie il cui bisogno in passato era soddisfatto dalla fede tradizionale. Se ci muoviamo sulla scacchiera della vita usando solo le risposte della scienza, arriveremo prima o poi allo scacco matto. Perché la finitezza della nostra condizione umana non l’abbiamo ancora superata, con la scienza. E non è superabile, in quanto intrinseca al nostro essere uomini mortali – incarnati in corpi che si ostinano a nascere e morire, nonostante i voli pindarici delle nostre menti. Qualcuno riesce a vivere senza porsi continuamente la domanda. Altri no; altri debbono necessariamente vagare per certi lidi nebbiosi alla ricerca di qualcosa, in un peregrinare tanto simile ad una condanna. E come salvarsi, allora? La frequentazione dell’abbandono forse può aiutarci un poco.
Esplorare fisicamente un luogo abbandonato significa affacciarsi su un altrove governato da regole ed aspettative diverse da quelle che abbiamo fatto nostre nella vita quotidiana. Ci si muove in un ambiente che non si conosce – non si sa cosa si troverà, o se addirittura si incontrerà qualcuno – si sperimenta il pericolo, legato alle condizioni solitamente fatiscenti del luogo ed ai possibili crolli, ogni porta socchiusa si apre sull’inconoscibile. Il gesto semplice del posare la mano su una maniglia arrugginita diventa una sfida alla nostra pretesa di onniscienza, la mente si spalanca alla possibilità -e per un attimo, non è l’angoscia della libertà a pesare sulla nostra schiena ma la sua bellezza a sbocciarci nel cuore. Noi che andiamo in crisi quando non prende il GPS per un attimo desideriamo perderci dentro all’hic et nunc senza riserva alcuna; vogliamo abbandonarci – al battito del cuore, al nodo in gola, al brivido, a quell’odore di polvere e guano e marciume che ci rammenta la morte e proprio per questo – sì, ci richiama alla vita. Ed è qui che si incontra il mistero, si soddisfa quella sete dimenticata. Il mistero si palesa come necessario e perduto. Ecco l’esplorazione urbana in chiave terapeutica, metafora del recupero di parti di sé dimenticate ed abbandonate. Nutrimento dell’anima, si rivela un vero e proprio strumento per orientarsi meglio nella crisi; per ritrovare i contorni di un sé meno sacrificato, più aperto, che lasci spazio al fanciullo³ che è dentro ognuno e che si astenga dal ferreo giudizio di un adulto troppo prigioniero della logica.
Nord Italia
Il proliferare degli appassionati di esplorazione urbana mi ha portato a censire, se così vogliamo dire, questo variopinto pubblico fruitore dell’abbandono e mi sono resa conto di come ciascuno a suo modo, quando esplora, apra in verità una vera e propria porta su un personale luogo altro. Partendo con chi dichiara apertamente di andare a caccia di presenze o fantasmi e terminando con le personalità più razionali in assoluto in cerca di testimonianze e fatti storici nessuno – e dico veramente nessuno – ha negato di sperimentare, durante l’esplorazione di un luogo abbandonato, un contatto speciale con energie che qualcuno pone fuori di sé ed altri, semplicemente, riconoscono con parti di sé medesimi finalmente dis-velate⁴. Nel luogo abbandonato si verifica un salvifico corto circuito tra ciò di cui siamo prigionieri e ciò che ardentemente desideriamo.

In questi tanti altrove sembra chiaro quindi che ci si spogli dei panni razionalizzanti ed un po’ stretti che si vestono nella vita quotidiana di medici, ingegneri, responsabili aziendali ecc. e si tornino ad indossare i panni dell’avventuriero, del cacciatore, dell’uomo primitivo che esplora il mondo attraverso i sensi. Niente meno di ciò che fa il bambino: esplora senza ancora conoscere, è disposto ad accettare il magico – il misterioso, il sovrannaturale, ciò che è senza una spiegazione – come un fatto della vita; potremmo dire che l’imbuto filtrante della sua mente ha un’imboccatura molto più ampia di quella di un adulto. Ed è lì che vogliamo tornare, non nel senso di un regredire ma di un procedere –vogliamo essere capaci di abbandonarci all’incertezza, alla domanda, all’insicurezza, senza la cocente ed impellente necessità della risposta e della spiegazione. Io credo che il luogo abbandonato, col suo carico di stimolazioni, di ricordi e di vite inscritte nelle sue pietre, sia medicina per la nostra coazione a ripetere l’insulsa pretesa di controllare tutto. Sollecita sottopelle alcune corde che è difficile andare a pizzicare in altro modo.
In codesta disposizione d’animo inusuale si sperimentano con ancora più partecipazione risposte corporee a stimoli molto diversi da quelli cui solitamente siamo esposti, risposte biologicamente assimilabili a quelle del cacciatore preistorico – l’aumento del battito cardiaco, la dilatazione delle pupille, l’acuirsi della vista e dell’udito, l’aumento della pressione sanguigna, l’accelerazione del respiro – tutte le classiche risposte alla paura, insomma; cui ci sottoponiamo durante l’esplorazione in modo consapevole. Il tornaconto? Scaricare circuiti spesso in corto, che anziché generare ansia generica o panico hanno finalmente pane di cui cibarsi. In un mondo dove non dobbiamo più rischiare la vita per procacciarci il cibo o assicurarci la sopravvivenza, la ricerca del rischio assume sfaccettature sempre diverse – e questa ne è una.

Non deve apparire affatto stupido, dal momento che mentre la società cambia a ritmi da velocità della luce non fa altrettanto la nostra costituzione genetica: la natura ha ritmi adattivi molto più lenti. Quanto detto sinora fa del luogo abbandonato una vera e propria palestra per bisogni corporali e bisogni spirituali che non trovano campo di esercizio entro gli spazi consueti. Il borgo abbandonato ci avvicina alla terra ed alla natura, coi suoi ritmi e tempi, con la sua ruvida impronta di esistenze diverse dalle nostre, che ci attraggono molto – e come mai? Forse anche per la loro disposizione a credere, quando non è possibile capire. Torna questa inclinazione alla fede come bisogno di accettazione della propria finitezza. Dall’altro lato il luogo abbandonato sfama i nostri istinti primordiali, riconducendoci ad una umanità svestita, nuda nella propria naturalità troppo spesso rinnegata. Non vorrei si fraintendesse: non auspico un ritorno alla superstizione o ad un magismo per così dire di prima mano, ma un percorso di riavvicinamento alla consapevolezza che non tutto è a disposizione della nostra comprensione – né lo sarà mai. E questa consapevolezza, signori, può essere di estremo sollievo – il mistero c’è, è là, in qualche altrove a farsi carico di ciò che non riusciamo a comprendere, rendendocene possibile l’accettazione. Un piccolo escamotage per l’uomo che non sa più come inscrivere il negativo nella cornice degli eventi, un trucco forse per alcuni – sì, e non per questo deve farci storcere il naso, siamo consumatori di trucchi quasi ogni giorno della nostra vita.
Prendersi cura del luogo abbandonato – esplorandolo, indagandolo, compiendo la scelta di ri-viverlo – può diventare un percorso di cura del sé, una meta-esplorazione vera e propria in cui si recuperano delle parti importanti di noi di cui crescendo siamo diventati dimentichi. E la cura del sé, per quanto antica, è la grande sfida del ventesimo e ventunesimo secolo, ora che di tempo ne abbiamo in abbondanza – e proprio questa abbondanza come ho ricordato genera a volte interrogativi ed angosce, e rende più strettamente necessario disporre di tecnologie del sé alla Foucault, mezzi e strumenti per coccolare e formare la nostra anima.

Fig.6 Messaggi. Manicomio abbandonato, Nord Italia
Esplorare ed amare l’abbandono ci può insegnare non solo ciò che è palese – l’importanza della storia, delle nostre radici, dello studio della società – ma soprattutto può riabituarci ad essere più piccoli, meno antropocentrici. E talvolta, è proprio meglio così – perché siamo uomini, non dei onniscienti. Saper riconoscere questo limite è assolutamente fondamentale per la nostra serenità, così in pericolo: ci aiuta a mettere ordine nel caos, senza che questo significhi pretendere di controllare tutti gli eventi. Credo che certi ritorni ai luoghi dell’abbandono siano da interpretare dunque anche in questa chiave: un ritorno all’umano, alla confidenza con la dimensione del limite, senza la quale si spalanca l’abisso dell’impotenza. Perché è proprio dove c’è pretesa di onnipotenza che nasce il frustrante germe dell’impotenza – se possiamo tutto e non sappiamo fare allora cosa valiamo, chi siamo, quanto siamo bravi? E se invece fossimo solo piccoli uomini, col nostro ordinario carico di fatiche e punti di domanda insoluti, non saremmo forse più leggeri – non saremmo forse meno apprensivi, non pretenderemmo un po’ meno dalle nostre bistrattate anime? Un magismo di ritorno quindi, approdato a seguito della lunga traversata nel mondo moderno, con le sue pretese di onnipotenza. Un magismo scelto e non subìto.
Il magico, con questo suo enorme potenziale regalo, si nasconde altrove ed oltre – oltre la porta socchiusa, nell’armadio, nella cantina buia – in un riproporci lo spirito infantile di colui che ancora sa cogliere verità diverse, ancora sa toccare ciò che è invisibile, ancora è disposto a credere che il mostro sotto al letto ci sia davvero – e proprio per questo si accetta per ciò che è: umano, solamente umano.
Note:
¹ L’espressione orizzonte individuale della crisi è presa a prestito da De Martino per indicare, con grande efficacia, la fragilità ontologica, il dramma individuale e l’impasse esistenziale.
² Si consideri la magia non solo come espressione dell’irrazionale o eco di una cultura primitiva, ma soprattutto come specifica e codificata espressione culturale.
³ Fanciullo si può leggere qui anche fanciullino come lo intendeva Pascoli, la parte di noi che sa rimanere piccola e che arriva alla verità non attraverso il ragionamento, ma in modo intuitivo ed irrazionale; guardando tutte le cose con stupore e aurorale meraviglia.
⁴ Il trattino è voluto per riprendere il concetto di ἀ–λήθεια