Ho volutamente intitolato questo articolo riprendendo il titolo del bel libro di Matteo Clemente Estetica delle periferie urbane. Le periferie mi attraggono come possedessero un magnetismo tutto loro. Sono la cifra dell’ approssimato, del non finito, dell’imperfetto. Dove non progettate, parlano di spontaneità. Dove progettate, parlano di devianza dalle aspettative progettuali. Periferia ed abbandono sono come due partner di tango, ballano stretti l’uno all’altro e il loro è un linguaggio che seduce.

Le periferie sono il luogo dove comincia il degrado, spesse volte; ma con esso viene alla luce un’umanità che rimarrebbe altrimenti sommersa. E no, le periferie non sono tutte uguali – ma sì, hanno alcuni denominatori comuni. Viene meno in esse, spesso se non sempre, il senso dell’ordine sia estetico che costituito. È la teoria delle finestre rotte: disordine urbano chiama criminalità. E dunque, dov’è la bellezza? Fortunatamente, la bellezza – come l’arte – può andare oltre il bene e il male.

Le periferie sono sempre esistite, e quando sono state studiate spesso il risultato ottenuto ha portato lontanissimo dall’obiettivo prefissato. Pensiamo a Scampia. Quello che aveva progettato l’architetto Franz Di Salvo – con in mente le grandi unità di abitazione, piccole città autosufficienti in tema di servizi – non è certo, per dirla con Renzo Piano, ciò che è stato veramente eretto tra il 1962 e il 1975. Le Vele prevedevano in tutto 6.500 vani abitativi ma anche scuole, teatri, cinema, centri sociali, spazi per il gioco e lo sport: tutto abortito, ed archiviato definitivamente dopo che il terremoto dell’80 comportò una nuova ondata di occupazioni abusive. Eppure Scampia emoziona. Come fa? Lo fa con il suo decadimento, il suo non-finito; con i suoi volti umani e disumani, la sua aura di abbandono ed i graffiti che parlano, e perché no, le sue geometrie. Le Vele parlano più delle ordinate aiuole del centro città. O quanto meno parlano una lingua diversa. E dunque: abbattere o meno gli ecomostri? Io credo sempre nella possibilità di reinventarli, rianimarli, reinterpretarli.

Pensiamo a Zingonia. Siamo vicino a Bergamo, un esempio meno conosciuto ma interessantissimo. Nasce nel ’65 da un progetto del costruttore ed imprenditore Renzo Zingone – da cui il nome; doveva essere la città ideale tra residenze ed industrie. Un tessuto urbanistico di 50 mila abitanti, ispirato al modello europeo di quartiere residenziale/industriale che vedeva sorgere palazzi residenziali e villette seriali in aperta campagna. Il motto: portare le industrie dai lavoratori, e non viceversa. Zingonia oggi? Una piazza di spaccio a cielo aperto. Automobili bruciate a bordo strada, scorci degni del Bronx.

E torniamo allora all’estetica. Quando fotografo le periferie non cerco la bellezza, ma il sublime. Sub limen, ciò che è al limite. Riprendendo il concetto dalla filosofia, il sublime è quello spettacolo che commuove – che muove dentro, agita, scatena sentimenti quali in senso di piccolezza, finitezza, impotenza – e così facendo, anche spaventando con la potenza del suo impatto potenzialmente distruttivo, ci restituisce la cifra della nostra umanità. Ecco ciò che trovo nelle periferie, nelle loro costruzioni abortite, nei sottopassi invasi da rovi o dai rifiuti, nei volti che si nascondono a mezza vista dietro i davanzali. Il degrado è sublime, nel senso del portare l’osservatore sub limen e forzarlo a ri-trovare i confini dell’umano.

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Penso alle periferie di Roma o di Milano del secondo dopoguerra , fatte di baracche posticce a loro volta recuperate da altri resti , dove l’umanità che Miracolo a Milano o Accattone descrivono e rappresentano pienamente.
Ripenso ai quartieri cresciuti per rispondere ad una fame di abitazioni e che cresciuti troppo in fretta con la speculazione lasciata libera di spaziare.
Il Gratosoglio iin via dei Missaglia a Milano n mezzo alle nebbie , dove non arrivava neppure il tram ora è un quartiere di vecchi e di immigrazione e così la metropoli tiene lontano dalle mille luci del centro chi non è appetibile economicamente .
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